Il carcere del XXI secolo
Il carcere nel XXI secolo, tra incarcerazione di massa e diminuzione della criminalità
PRIGIONIZZAZIONE DI MASSA
Dopo circa 250 anni di storia, dove sta andando il carcere del XXI secolo? L’ultimo trentennio della storia dei sistemi penali del mondo occidentale si è caratterizzato per il ritorno all’utilizzo della pena detentiva come strumento principale per la repressione del crimine.
Fenomeno che ha preso piede negli anni Ottanta nel mondo anglosassone con i governi di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e Ronald Reagan negli Stati Uniti, ma che ha coinvolto anche l’Europa continentale negli anni successivi.
La crisi fiscale del Welfare State e l’avvento del cosiddetto populismo penale hanno prodotto un enorme incremento della popolazione reclusa in tutti i Paesi del mondo occidentale.
In Italia la popolazione detenuta è rapidamente raddoppiata all’inizio degli anni Novanta ed ha raggiunto nel 2010 livelli mai toccati nella storia della Repubblica.
TASSI DI CARCERAZIONE
In questa mappa si può vedere come i tassi di carcerazione siano particolarmente elevati negli Stati Uniti, in Russia (nonché nei Paesi dell’impero ex sovietico) e in alcune nazioni nel Sud del continente africano (Sudafrica e Botswana). L’Italia, che nel dopoguerra si è collocata a lungo al di sotto della media europea, da più di vent’anni si è riallineata a tale media, avendo peraltro problemi più rilevanti di sovraffollamento.
CARCERE E TASSI DI CRIMINALITÀ
Questo massiccio incremento dalla carcerazione (mass imprisonment) non è stato provocato da un aumento della criminalità.
Si è trattato per lo più della risposta dei sistemi politici alla crescente paura del crimine che si è diffusa nella società globalizzata sempre meno sicura non tanto dal punto di vista dell’essere vittime di reati, ma da quello economico e sociale (precarizzazione del lavoro, timore dei rischi ambientali, etc.).
Per un verso, l’avvento della società dello spettacolo ha consentito di sfruttare politicamente tali paure per concentrare l’indignazione e la rabbia popolare su categorie di individui marginali (stranieri, tossicodipendenti, piccoli criminali di strada etc.).
Per altro verso, si è creato, in particolare negli Stati Uniti, un vero e proprio business penitenziario con la privatizzazione di molti servizi di gestione delle carceri che erano stati tradizionalmente appannaggio dello Stato e con il trasferimento dei fondi pubblici dal sistema scolastico a quello penitenziario.
All’interno del sistema penale assistenziale postbellico [n.d.r. della Seconda Guerra Mondiale] il carcere era considerato un’istituzione problematica cui ricorrere solo come ultima risorsa, controproducente e scarsamente orientata alle finalità correzionali. Gran parte dello sforzo prodotto dal sistema politico era volto a creare misure alternative alla detenzione (…). Negli ultimi 25 anni questa tendenza di lungo termine è stata ribaltata (…). Dopo un secolo che ha visto costantemente crescere i tassi di criminalità e diminuire quelli di detenzione, il periodo più recente ha registrato la comparsa del fenomeno esattamente opposto: aumento dei tassi di carcerazione e caduta dei tassi di criminalità. (…) L’assunto dominante della nostra epoca è che “il carcere funziona”, non in quanto strumento di correzione o di rieducazione, ma come mezzo di neutralizzazione e punizione che soddisfa le istanze popolari di sicurezza pubblica e di severità della condanna
(D. Garland, La cultura del controllo, 2004)
Come si può chiaramente vedere da questo grafico, che mostra l’andamento dei tassi di criminalità e di detenzione negli Stati Uniti a partire dagli anni Ottanta, il tasso di carcerazione è aumentato in anni in cui la criminalità era stazionaria ed è continuato ad aumentare anche quando i tassi della criminalità erano in calo. La popolazione reclusa, infatti, non aumenta perché si commettono più crimini, ma per ragioni politiche e culturali più complesse che incidono sulla discrezionalità con cui le forze dell’ordine e i giudici decidono di reprimere i reati
Sono il detenuto numero 44861-127 del Federal Prison Camp nei pressi di Frostburg, Maryland. Un “campo” è un carcere di bassa sicurezza per quelli di noi che vengono ritenuti non troppo violenti e devono scontare una condanna non superiore ai dieci anni. (…) Nel contesto carcerario, un campo è considerato un luogo di villeggiatura. Non esistono muri di cinta, recinzioni, filo spinato o torrette di guardia. Ci sono solo alcuni agenti armati. Frostburg è relativamente nuovo e i suoi edifici sono più belli della maggior parte dei licei statali. E perché no? Negli Stati Uniti spendiamo quarantamila dollari per mantenere ogni detenuto e ottomila per l’istruzione di ogni alunno delle elementari. Qui a Frostburg abbiamo consulenti, dirigenti, assistenti sociali, infermiere, segretarie, collaboratori di vario tipo e decine di impiegati amministrativi, e sarebbero tutti in seria difficoltà se dovessero spiegare come riescono a riempire otto ore al giorno. (…) Siamo circa seicento detenuti qui a Frostburg e, con poche eccezioni, costituiamo un gruppo tranquillo. Quelli con un passato violento hanno imparato la lezione e apprezzano l’ambiente civilizzato. Coloro che hanno trascorso una vita in galera hanno finalmente trovato una casa. Molti di questi professionisti del carcere non hanno alcuna voglia di andarsene. Ormai completamente istituzionalizzati, non sono in grado di funzionare nel mondo esterno. Un letto caldo, tra pasti al giorno, cure mediche gratuite … come potrebbero avere altrettanto là fuori, sulla strada?
(J. Grisham, L’ex avvocato, 2013)