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Cella detentiva degli anni Settanta

La ricostruzione di una cella detentiva a metà degli anni settanta.

Foto del carcere di Saluzzo di Alberto Gedda (1978)

Foto del carcere di Saluzzo di Alberto Gedda (1978)

In questa sala troviamo la ricostruzione dell’arredamento di una cella degli anni Settanta-Ottanta del Ventesimo secolo.

Nel nostro Paese, l’arredamento delle celle, così come molte delle norme che regolano la vita comunitaria in carcere, muta con la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975.

Prima della riforma, le celle sono arredate quasi esclusivamente da materiale fornito dall’amministrazione: il letto, il materasso, le lenzuola e le coperte di lana siglate dal Ministero di Grazia e Giustizia, un armadietto, uno sgabello e un tavolino.

Anche il vestiario è fornito dall’amministrazione e proprio l’utilizzo delle divise contribuiva a produrre quel processo di spersonalizzazione dell’individuo che abbiamo visto nella sezione del museo Rituali di degradazione.

Dopo la riforma del 1975, la vita quotidiana del detenuto migliora. Il recluso ottiene il diritto di acquistare, a proprie spese, un fornellino a gas da campeggio per preparare le vivande calde. Possono entrare in carcere oggetti quali la caffettiera, le pentole, le padelle personali del detenuto.

Il cibo assume un ruolo importante nella quotidianità detentiva. Il vitto passato dall’amministrazione è solitamente indicato con il termine dispregiativo casanza. Attraverso il suo rifiuto, il detenuto mostra la sua avversione nei confronti dell’istituzione.

Il cibo acquistato autonomamente diviene uno strumento di resistenza al potere disciplinare. Il detenuto che può permettersi di acquistare del cibo riesce ad occupare il proprio tempo in una pratica piacevole come il cucinare, mantiene la sua autonomia, soddisfa quei piccoli piaceri del gusto che l’istituzione totale gli nega, insieme ad altri piaceri della vita.

Cucinare vuol dire anche poter scegliere gli amici con cui consumare la cena e quindi tessere alleanze all’interno della sezione. Il cibo diviene quindi sia un mezzo attraverso il quale il detenuto cerca di non perdere la propria individualità, sia uno strumento di potere attraverso il quale garantirsi una posizione di privilegio all’interno del carcere.

Non a caso, in tempi più recenti, quando il carcere ha visto aumentare la percentuale di detenuti privi di risorse (immigrati, tossicodipendenti, marginali) che necessitano di attingere alla casanza per sfamarsi, quei pochi che possiedono le risorse per il cibo, ma anche per il tabacco, sono in grado di esercitare una notevole influenza all’interno della sezione detentiva.

Nella sala abbiamo alcuni esempi dell’arte culinaria carceraria che abbisogna di utensili e oggetti per essere praticata e coltivata. L’armadietto fornito dall’amministrazione penitenziaria, ad esempio, con pochi gesti può diventare un forno per far cuocere o mantenere calde le vivande preparate dai reclusi. L’armadietto, infatti, veniva rivestito internamente di carta e di alluminio in modo da mantenere il calore più a lungo. Attraverso questo semplice intervento un oggetto fornito dall’amministrazione viene riutilizzato per pratiche che aumentano il comfort del carcerato. Naturalmente, si tratta di un uso improprio, vietato dal regolamento.

Ci troviamo però di fronte ad una delle tante pratiche informali, alcune al limite della legalità, altre totalmente in contrasto con le regole dell’istituzione, che i detenuti adottano per soddisfare propri bisogni o desideri.

Altra caratteristica dell’arredamento della cella: le affiches carcerarie. Le mura e ogni superficie disponibile sono letteralmente invase da poster, manifesti, cartoline, copertine di riviste, etc. I temi sono ricorrenti e spesso contrastanti: dall’immaginetta di Padre Pio alla foto discinta della star del porno, dal poster del campione tanto ammirato (qui ne vediamo uno che ritrae Lothar Matthäus) all’ultima cartolina ricevuta dalla fidanzata, dal manifesto di Che Guevara alla prima pagina de La Stampa che annuncia la morte di Papa Paolo VI.

Foto del carcere di Saluzzo di Alberto Gedda (1978)

Foto del carcere di Saluzzo di Alberto Gedda (1978)

Il cibo, la cucina, come metafora. Le ricette come ricette di vita. (…) In carcere (…) c’è la cucina, quella vera, quella dell’amministrazione penitenziaria, dove per fornire il cibo c’è una ditta che vince un appalto, dove a cucinare ci sono i detenuti impiegati a fare questo mestiere e dove c’è anche un ricettario fornito dal Ministero per far fronte a eventuali carenze di idee o dubbi dietetici per una sana e corretta alimentazione. Detto senza ironia, perché nel tempo del carcere che non passa mai, la forma fisica è importante. (…) Il cibo cucinato per tutti viene distribuito con carrelloni da ospedale lungo i corridoi dei bracci dove si affacciano le celle vere e proprie. Si prende e magari si condisce, si personalizza e si fa il pranzo di mezzogiorno. Ma la sera no, la sera è altro, è cucinare ognuno nella propria cella, cercando di ritrovare sapori e idee, magari aria di casa. (…) La vita, cucina compresa, è quella delle celle
(D. Dutto, M. Marziani, Il gambero nero. Ricette dal carcere, 2005)

Foto del carcere di Saluzzo di Alberto Gedda (1978)
Foto del carcere di Saluzzo di Alberto Gedda (1978)
Foto del carcere di Saluzzo di Alberto Gedda (1978)

info@museodellamemoriacarceraria.it

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