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Il detenuto G.D. Numero Matricola 557

La storia, esemplare di G. D. Numero Matricola 557

I detenuti alla Castiglia, nei primi anni della sua istituzione a carcere, non dispongono di divise particolari, ma vengono forniti al momento dell’ingresso di semplici vestiti civili, anche per non gravare troppo sul bilancio della amministrazione penitenziaria. Parte della ricompensa del lavoro svolto dai reclusi in carcere viene attribuito al Governo per rimborsare le spese di mantenimento.

I detenuti alla Castiglia, nei primi anni della sua istituzione a carcere, non dispongono di divise particolari, ma vengono forniti al momento dell’ingresso di semplici vestiti civili, anche per non gravare troppo sul bilancio della amministrazione penitenziaria. Parte della ricompensa del lavoro svolto dai reclusi in carcere viene attribuito al Governo per rimborsare le spese di mantenimento.

Da un plico di suppliche di detenuti per richiedere sconti di pena all’Ispettore generale delle carceri centrali Giovenale Vegezzi, risalente al Natale del 1848, ritrovato all’archivio di Stato di Torino, è possibile ricostruire alcuni elementi del profilo socio-criminale del detenuto alla Castiglia e dei rapporti che si instaurano tra custodi e custoditi. La gran parte dei reclusi è in carcere per piccoli reati o per trasgressioni minori all’ordine pubblico.

La maggior parte sono contadini o svolgono lavori umili come muratori, falegnami, fabbri, calzolai. Il protagonista che viene qui rievocato è un contadino che svolge anche il ruolo di sacrestano per integrare le misere entrate. Egli, residente presso Tortona, viene condannato il 7 gennaio 1848 dal Senato di Casale a tre anni di reclusione, all’interdizione dai pubblici uffici e, una volta scontata la pena, a tre anni di sorveglianza speciale da parte della polizia per una serie di fatti avvenuti tra la Quaresima del 1843 e il settembre 1846.

Denunciato dallo stesso parroco dove presta servizio della Chiesa del Molino di Forti, viene condannato per il furto di una serie di oggetti religiosi di ottone tra cui una croce rotta ed un candelabro del peso di libbre sette e once dieci, “una pianeta color rosso pallido”, “un piatto di ottone utilizzato per la raccolta delle elemosine, una quantità incerta di cera rotta da cui ricavò lire quattro e dodici centesimi”, “oggetti di mantelleria e teleria”, alcuni furti di denaro direttamente dalle elemosine, “specialmente nei giorni festivi e in tempo di Quaresima”, in un caso “approfittando verosimilmente della circostanza che la cassetta a bussola in cui si trovavano venne dimenticata aperta”.

Nella sua supplica disegna a tinte fosche la propria situazione e soprattutto quella della famiglia: il figlio “innocente pargoletto, che ora è orfano, derelitto”; “la sconsolata di lui consorte misera passa i suoi giorni, perché priva anch’essa di marito che coll’onesto sudor della fronte le procacciava il vitto, debbe vivere penosi giorni a carico dei parenti che stentatamente le provvedono il mero necessario”. Negli archivi non si è trovata traccia dell’esito della supplica.

Nelle celle della Castiglia sono stati ritrovati alcuni graffiti che raffigurano numeri con caratteri grafici esattamente coincidenti a quelli utilizzati dell’amministrazione penitenziaria ottocentesca per identificare i reclusi. Ci piace immaginare come quello che vediamo qui riprodotto sia quello assegnato al detenuto G.D., traccia di una vita reclusa che ha percorso tutti gli anni che ci separano da quell’inverno del 1848.

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