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“Dentro” di Sandro Bonvissuto. Una recensione di Claudio Sarzotti

Sandro Bonvissuto nel suo racconto ripercorre, in prima persona, le sensazioni provate da un individuo che viene arrestato e condotto in carcere

 

Sandro Bonvissuto nel suo racconto ripercorre, in prima persona, le sensazioni provate da un individuo che viene arrestato e condotto in carcere 

di Claudio Sarzotti

Goffredo Fofi sul settimanale Internazionale lo ha definito «Il migliore mai scritto in Italia su questo tema»: si tratta del primo dei tre racconti che costituiscono il libro di Sandro Bonvissuto intitolato Dentro uscito da Einaudi nel 2012. L’Autore è venuto a presentare il libro al Campus Luigi Einaudi ed ha catturato l’attenzione del pubblico attraverso il suo linguaggio diretto, talora sboccato, ma sempre efficace nel cogliere l’essenza delle questioni trattate. Del resto, la sua stessa esistenza di “filosofo della Magliana”, come si autodefinisce, è atipica tra l’impegno di scrittore e quello professionale alla storica trattoria romana “La Sagra del Vino”.

Bonvissuto nel suo racconto intitolato Il giardino delle arance amare ripercorre, in prima persona, le sensazioni provate da un individuo che viene arrestato e condotto in carcere dal momento in cui gli vengono “prese” le impronte digitali sino al momento in cui, tornato a casa, rivede l’albero di arance amare del suo giardino, che “stanno lì sull’albero, poi cadono per terra. Non servono a niente. Ma pure esistono”. Sono in tutto una novantina di pagine in cui viene descritta questa parentesi detentiva nella vita di un individuo che sembra proprio “non servire a niente”, come le arance amare che cadono dall’albero. Non è servita forse al protagonista del racconto, ma certamente tale parentesi ha consentito a Bonvissuto (sono la stessa persona? Il dubbio non è stato sciolto dall’Autore) di tratteggiare quel mondo contenuto in quella “costruzione silenziosa, che stava lì nel buio senza avvertire la sua esistenza”, presenza “tetra e antecedente”. E di questo mondo, Bonvissuto descrive immediatamente i rituali di degradazione che molta letteratura sociologica ha analizzato: la “presa” delle impronte digitali, ovvero di “una cosa che, fino a poco prima, era intima e privata, e che invece d’ora in avanti tutti avrebbero potuto vedere. Senza dovermi chiedere niente”; la consegna degli oggetti personali che, scomposti in ogni loro parte ed inventariati in un modulo, vengono messi in una busta di plastica, ovvero qualcosa che fondamentalmente “ha a che fare con i morti. (…) Non ho mai visto una cosa viva dentro una busta. (…) È così: la plastica e la vita non vanno d’accordo”. E con la vita non va d’accordo neanche l’esistenza all’interno del carcere, in un mondo diviso e incentrato sul conflitto: “da una parte quelli che avevano le chiavi, dall’altra quelli che non ce le avevano”. Dove si è costretti “a passare la notte vicino a qualcuno che non sai come si chiama”. Un luogo di morti in cui uccidersi può diventare “l’unica occasione per sentirsi vivi”.

Bonvissuto riesce a descrivere con estrema accuratezza quei luoghi, la loro desolazione e la loro sconcezza. Scrive una delle più belle pagine che abbia mai letto sulla capacità annientante del muro. “Non c’è niente che ti uccide come un muro. (…) Nonostante le apparenze, il muro non è fatto per agire sul tuo corpo; se non lo tocchi tu, lui non ti tocca. È concepito per agire sulla coscienza. Perché il muro non è una cosa che fa male; è un’idea che fa male. Ti distrugge senza nemmeno sfiorarti”. Sarebbe forse una descrizione che sarebbe piaciuta a Michel Foucault che del  è stato forse il primo esploratore. Nella presentazione torinese, Bonvissuto lo definisce, come quasi tutti i pensatori francesi, un “parac…”. Una provocazione certamente, ma anche un’intuizione per certi aspetti geniale. Anche qui il “filosofo della Magliana” colpisce nel profondo: Dentro appunto.

 

 

biografi@museodellamemoriacarceraria.it

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