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La storia di Sasà, fare del carcere una palestra del sapere e del crescere

Intervista a Sasà Striano, nato nei Quartieri Spagnoli: in carcere ha scoperto il teatro ed è diventato attore e scrittore

Gira nelle scuole, portando la sua testimonianza. «La materia da sola “fa muffa”. Obbligherei gli artisti a entrare nella scuola, per farne una palestra del sapere e del crescere, con le materie, l’arte e la vita. Gli insegnanti da soli non possono farcela, ma insieme sì»

«Sono nato ai Quartieri Spagnoli, furti, droga, plagio, ho buttato 20 anni della mia vita. Per fortuna un giorno mi hanno arrestato, in Spagna: per fortuna, sì, perché se sono qui è per quello. In un carcere possibile finalmente attraverso la lettura e il teatro ho messo in crisi la mia “malavita” e costruito una vita nuova, la mia “bella vita”»: Sasà racconta così la sua storia, convinto che «Shakespeare dovrebbero farlo santo». Ha trascorso otto anni di carcere e oggi Salvatore Striano è attore e scrittore affermato, con la consacrazione dell’Orso d’Oro al festival di Berlino con Cesare deve morire dei fratelli Taviani, in cui lui interpreta il ruolo di Bruto. Ha raccontato la sua scoperta del teatro a Rebibbia in La Tempesta di Sasà (Chiarelettere) e nel 2017 ha pubblicato il romanzo Giù le maschere. 24 ore per cambiare una vita (Città Nuova). Continua a lavorare con le scuole e con le carceri e su twitter di presenta come “artista socialmente utile”. Domani porterà la sua testimonianza al cinema Pierrot di Ponticelli, durante la tappa napoletana di #Tuttaunaltrastoria, il “giro d’Italia” organizzato da Con i bambini per riflettere sui temi della povertà educativa. Il focus? “La scuola che fa la scuola”. La scuola come presidio di legalità, il cinema come luogo di incontro e contrasto alla violenza della strada.

La cronaca ci racconta le baby gang e i ragazzini che vanno a scuola con il coltello. I dati sulle competenze di base o la dispersione scolastica segnano ancora un gap ampio fra il Sud e il resto d’Italia e d’Europa. Però dati e cronaca non hanno lo spessore dell’esperienza. Lei come vede oggi la realtà dei ragazzini di Napoli: cosa la preoccupa, che criticità vede, cosa c’è di nuovo e di diverso?
Non raccontiamoci storie, la perdita valori degli adulti ricade su minori: in primis direi questo. Il punto di partenza deve essere un’analisi sugli adulti, perché le responsabilità dei giovani sono in parte conseguenza dei non comportamenti per bene degli adulti, di mamme distratte o non perfettamente calate nel ruolo di madri, di figli che si vergognano di ciò che le madri postano su Facebook, di scuole che non permettono agli studenti di tirare fuori il meglio che hanno dentro… Il meglio non è la materia, che da sola “fa muffa”, non riesce a penetrare nei ragazzi. I ragazzi si accorgeranno che hanno bisogno delle materie quando avranno 30 anni, per il momento fanno finta di ascoltare, dicono i sì sufficienti per non avere noie, fanno copia e incolla. Andrebbe rinnovato il metodo, la scuola dovrebbe essere multifunzionale a livello culturale, non essere solo la scuola delle materie. In questo senso ciò che al Nord è normale, scontato, al Sud semplicemente non esiste: al Nord le scuole sono moderne a cominciare dagli edifici, il pomeriggio ci si fa sport, ci sono progetti culturali, restano aperte… I problemi ci sono anche al Nord: la differenza è che la parte più agiata invece di manifestare violenza gratuita sugli altri magari si appoggia sull’alcool e la droga, al Nord la coltellata se la danno da soli con l’alcool… Ma tornando alla domanda, se vogliamo fare “un processo” dobbiamo quantificare le responsabilità, i giovani, la scuola, la famiglia, tutti hanno le loro responsabilità. Perché come adulti ci atteggiamo a moralisti e invece creiamo modelli diseducativi, invece di essere modelli preferiamo creare imitazioni.

Ha citato la scuola. Cosa dovrebbe fare la scuola, di diverso?
Dovrebbe esserci più partecipazione. Le scuole sono deserte, sono abitate solo da studenti e insegnanti, che non riescono più a trovare armonia fra loro, nella scuola non c’è un coro che canta insieme. Occorre inserire nella scuola altri elementi, altri soggetti, altre professionalità: obbligare gli artisti a entrare nella scuola, per dare energia, per portare la realtà. Tutti pensano che sia più facile fare l’attore che andare a scuola, ma se un attore andasse nella scuola a mostrare quello che c’è dietro, cos’è lo studio di un copione, i ragazzi vedrebbero forse in modo diverso la lettura. Se gli artisti e gli sportivi si avvicinano alla scuola, la scuola non è più luogo di fatica ma di aggregazione, una palestra del sapere e del crescere, non ci sono solo le materie ma l’arte e la vita: è di questo che le nostre scuole sono povere. Gli insegnanti da soli non ce la fanno, non per colpa loro ma perché è impensabile che un insegnante da solo possa educare 30 ragazzi: la scuola ha bisogno di un supporto, di adulti che incitino ogni giorno i ragazzi come in una partita di pallone da vincere, per tornare a scoprire la bellezza del mondo, della letteratura, della musica… In classe servono grandi motivatori e questo deve entrare anche nella formazione degli insegnanti. Potenzierei anche di più il servizio educativo, ci sono periferie che hanno 150mila abitanti e 2/3 assistenti sociali, come si fa? Vorrei vedere anche più poliziotti che entrano nelle scuole, non per controllare se girano spinelli ma per far venire ai ragazzi la voglia di diventare poliziotti, per appassionarli. La scuola deve chiedere un aiuto in questo senso, di altre professionalità, di un altro punto di vista, questa sarebbe la manna dal cielo che potrebbe partorire tanti nuovi talenti nei ragazzi, facendo tutti insieme qualcosa.

Recentemente in un’intervista sulle baby gang di Napoli, don Antonio Loffredo alla domanda “cosa possiamo fare noi, qual è la strada da percorrere” ci ha risposto “Davide, i ragazzi come Davide”.Giovani che sono passati dal disagio e che stanno imparando a conoscere valori nuovi, altre strade possibili. Anche lei è un po’ simbolo che la cultura cambia la vita…
I ragazzi hanno bisogno di modelli alternativi, ma vicini. Io credo che i ragazzi hanno bisogno artisti, io l’ultimo degli artisti ma sento di poter consigliare i ragazzi, di parlare un linguaggio che loro comprendono, ad esempio droghe, sulla scala di valori… Qui mi sento insegnante ma poi sono povero su altri aspetti: per questo dico che io e gli insegnanti insieme possiamo essere un antidoto. Penso a tanti attori che hanno i riflettori addosso, quella luce va usata con amore, non per autocelebrarsi. Io ho avuto tante false partenze nella vita, ma quando vado nelle scuole e nelle carceri mi sento un artista socialmente utile. Poi oggi abbiamo una comicità fatta sul bullismo, rapper che cantano insulti. Potremmo ridere o piangere davanti a questi contenuti che infettano i giovani, io non li trovo artisti, ma ai ragazzi piacciono… proviamo a invitarli a venire a scuola per mostrare come hanno costruito il contenuto, come ci si arriva, qual è l’abc della musica, che tipo di lavoro si fa su un testo… cantato a scuola, dopo aver fatto questo lavoro, il contenuto forse non offende più.

Fonte: Sara De Carli, Vita.it

biografi@museodellamemoriacarceraria.it

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