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Luigi Pagano e la monaca di Monza

A scuola, Luigi Pagano litigava con la prof sulla monaca di Monza «mi sembrava che Gertrude fosse più vittima che autrice di reati». Per lui il carcere è superato

A scuola, Luigi Pagano litigava con la prof sulla monaca di Monza «mi sembrava che Gertrude fosse più vittima che autrice di reati». Per lui il carcere è superato. «Troppe volte diventa una comunità che, paradossalmente, offre tutta una serie di servizi dove manca solo la libertà. Bisognerebbe avere delle pene diverse capaci di andare oltre il carcere».

Napoletano, classe 1954, Pagano mi riceve nel suo ufficio di Provveditore dell’amministrazione penitenziaria a Milano, l’ex aula bunker del maxiprocesso alla mafia accanto a piazza Filangieri. «Mi sono specializzato in criminologia. È il lavoro che ho sempre voluto fare. A Napoli è così: o sei avvocato o delinquente». Scherza, ma sulle carceri ha esperienza da vendere, idee chiare e fuori dal coro che, messe insieme, disegnano una nuova geografia umana che si estende ben oltre il mondo penitenziario. Per lui il 50% delle nostre carceri non è adatto alla realtà. «Il codice dei valori è ancora quello del 1931».

E se Pagano nel 2017 diventasse il nuovo ministro della Giustizia?

Sto aspettando di andare in pensione, altro che ministro. Tutto sommato direi le stesse cose che sta dicendo il ministro adesso. Ma parlare di carcere, e soprattutto parlare del superamento del carcere così come Orlando ha fatto, non è semplice.

Superare il carcere: cosa significa?

Delle buone leggi si fanno e ci sono. Il problema poi sono le risorse, il budget, il personale, ma anche come le leggi vengono accettate. La nostra società è davvero in grado di prendersi una responsabilità nei confronti del carcere?

I primi passi da fare?

C’è una riforma: applichiamola. Ma già dirlo dopo 40 anni significa chiedersi perché non ha funzionato prima. Secondo me è una buona legge. Però ha bisogno di strutture. Ha bisogno di spazi, innanzitutto. I nostri istituti sono nati vecchi e probabilmente senza un’idea di quello che volevano essere. La struttura è fondamentale perché rende plastica la filosofia di fondo. Se vado a San Vittore, qui a Milano, capisco che tipo di pena si voleva far scontare nel 1879. Se vado nei nuovi istituti, ci capisco poco. Ci sono pochi spazi utilizzabili dai detenuti, sono fatti male anche per la custodia, ci sono pochi luoghi per il lavoro.

Il carcere modello esiste?

Nel 2001 ci siamo trovati positivamente a inaugurare Bollate. Era un terreno vergine e banalmente abbiamo abbattuto un po’ di muri, creandolo come volevamo noi. Lo spazio è fondamentale perché l’ordinamento vorrebbe che la cella fosse il luogo dove il detenuto va unicamente a dormire, mentre la sua vita, all’interno del carcere, si svolge in tutti gli altri ambienti, dove può lavorare, fare colloqui, andare a scuola, trascorrere l’ora d’aria e quant’altro. I nostri istituti non sono molto adeguati.

Dovremmo avere molte pene diverse. Pene peculiari, lavori di pubblica utilità e così via. Ovvero delle pene che bypassino il carcere. Ma non le abbiamo.

Secondo me il 50% delle nostre carceri, ma sono benevolo in eccesso, non è assolutamente adatto all’idea della legge del ’75. La Costituzione dice che il carcere dovrebbe evitare che la pena sia contraria al senso dell’umanità, quindi non può arrivare ai limiti della tortura, e poi deve tendere al reinserimento sociale. Allo scoppio di Tangentopoli, nel 1992, San Vittore con una capienza di 800 persone ne ospitava oltre duemila e 400. Come si può vivere così?

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sergiosegio@dirittiglobali.it

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