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Nel carcere di Monza con Gabriele Del Grande

Vita.it ha accompagnato il reporter italiano autore di "Dawla" nell'incontro con un gruppo di detenuti della Casa circondariale di Monza, un anno dopo la detenzione arbitraria in Turchia

In prigione non ci metteva piede da quando era stato messo in isolamento, in Turchia, nell’aprile 2017. Lunedì 7 maggio 2018, Gabriele Del Grande è andato di nuovo dietro le sbarre, nella Casa circondariale di Monza. Per qualche ora, e per fare ciò che più gli riesce bene: raccontare. Il reporter e scrittore nativo di Lucca, che il prossimo 19 maggio compirà 36 anni, ha incontrato la decina di detenuti che compongono la redazione del nascente giornale carcerario “Beyond borders”, promosso in collaborazione con l’associazione Zero Confini (che ha organizzato l’arrivo di Del Grande a Monza) e che troverà distribuzione anche fuori dalle mura, in tutto il territorio della provincia di Monza e Brianza, grazie alla testata locale “Il cittadino”. A fianco di Del Grande e della redazione carceraria, oltre ad alcuni educatori e volontari, c’era Vita.it. Che ha potuto documentare passo per passo tre ore di intensi scambi di vedute e narrazioni soprattutto partendo dalla novità degli ultimi giorni, l’uscita del lavoro più impegnativo di Del Grande, le 600 pagine del libro “Dawla – La storia dello Stato islamico raccontata dai suoi disertori” (Mondadori). Un lavoro durato 18 mesi – compresa la prigionia arbitraria in Turchia al confine con la Siria – realizzato con un crowdfunding molto partecipato: 47.918 euro lordi raccolti in due mesi del 2016, grazie a 1342 sostenitori che in gran parte hanno seguito i suoi lavori dedicati soprattutto alle migrazioni forzate, come i libri “Mamadou va a morire” e “Il mare di mezzo”, il docufilm “Io sto con la sposa”, e “Fortress Europe”, il primo blog che per anni ha registrato i numeri e i volti delle persone morte nel Mar Mediterraneo.

“Io ho letto tutto quello che hai scritto, ho pronte tante domande”, inizia Massimo, detenuto con pena medio-lunga così come la gran parte delle persone presenti all’incontro con Del Grande. Che con franchezza, ha risposto punto su punto. Anche quando si è trattato di scendere nei dettagli della sua prigionia: “hai avuto paura quando ti hanno messo dentro?”, la domanda. “Mentirei se dicessi di no”, l’inizio della risposta. “Ma poi è prevalsa una strana lucidità, quando la cancellata si è chiusa dietro di me. Fino a pochi momenti priva ritenevo impossibile che sarei finito in prigione, anche perché non stavo facendo nulla di grave se son fare un’intervista per il libro in un ristorante: dopo almeno 5 ore di dialogo con il mio interlocutore, si sono presentati 7-8 agenti in borghese che ci hanno prelevato e messo in un furgone e portato in un centro di detenzione. In quei momenti mi è servito sapere l’arabo, per instaurare un rapporto diretto con molti dei 35 detenuti nel braccio del carcere in cui mio trovavo. Mi sono dovuto adattare, il fattore umano ha superato quello politico, avevo davanti a me anche affiliati di Al Qaeda e paradossalmente il tempo in quella prima prigione mi è servito per continuare a recuperare materiale per “Dawla” (che significa proprio “Stato islamico” in gergo colloquiale, ndr). Poi però mi hanno spostato in isolamento e lì sì che è stata dura: 11 giorni a leggere libri che hanno passato, tra questi il Corano e un romanzo inglese tradotto, fare ginnastica, ma anche contare le mattonelle e svitare una vite del letto per scrivere sui muri, ovvero tutto per rimanere lucido e non pensare troppo, anche perché per i primi giorni non mi hanno concesso un avvocato”. Quando si è mosso qualcosa e sono arrivati l’avvocato e il console italiano in Turchia, ha potuto telefonare alla compagna italiana e sentire la voce dei due figli. “Da quel momento ho recuperato energie e ho iniziato per protesta uno sciopero della fame che, nonostante mi privasse del sonno notturno dato che a stomaco vuoto si dorme di meno, è servito come pressione verso le autorità turche così come l’azione diplomatica del governo italiano e – ho saputo in seguito – le tante iniziative di supporto di amici e solidali in Italia“.

“Le storie che senti non ti toccano, non ti buttano mai giù?”, arriva la domanda di Francesco, uomo di corporatura enorme e due lauree alle spalle prima di finire nelle grane. “No, ma solo perché riesco a dare un senso a queste storie, ovvero non è un ascolto fine a se stesso, so che andranno a finire in una narrazione e altri le leggeranno”. La conoscenza, lo storytelling che è nel dna dei veri reporter. “Questo libro però è diverso da tutti gli altri, prima ho sempre parlato con le vittime: con “Dawla” mi sono trovato davanti i carnefici, diventati disertori dello Stato islamico ma pur sempre autori di crimini efferati. In questo caso, provando meno empatia e più distacco, in realtà sono riuscito a lavorare con la giusta freddezza, dato che lo scopo del libro non è capire le scelte di queste persone ma piuttosto raccontare dall’interno, spiegare i meccanismi come fa per esempio un infiltrato nella Mafia”. Questa volta il soggetto è Isis, i “tagliagole”, persone “che hanno avuto un consenso enorme nonostante le atrocità che hanno commesso, che hanno attratto decine di migliaia di persone a diventare combattenti”. A questo punto Del grande lancia un messaggio chiaro: “sarebbe più semplice dire che loro sono tutti psicopatici, purtroppo la realtà è più complessa, prevalgono meccanismi di potere e assoggettamento che portano persone all’apparenza normali a commettere criminalità atroci. In questi mesi di lavoro il parallelo che più mi è venuto in mente è quello di Marzabotto, strage nazista in cui i tedeschi raccolsero donne, bambini, anziani, preti, contadini e li mitragliarono: come è possibile che un soldato di 20 anni possa fare questo, come è possibile che un affiliato allo Stato islamico arrivi a sgozzare qualcuno? Ho seguito questo filo conduttore e sono arrivato alla banalità del male delle storie di vita delle persone”.

Dawla

La curiosità a questo punto prende il sopravvento e la richiesta a Del Grande è univoca: dire qualcosa sui protagonisti del libro. Ovvero 70 figure, che ruotano però intorno a quattro personaggi principali – ripresi nell’immagine metaforica della copertina, dove una persona che protesta in modo pacifico “lanciando” note musicali, viene affrontata da tre figure diverse tra loro ma unite nell’uso della violenza, ovvero un esponente del regime siriano, uno dei gruppi ribelli e uno di Dawla, appunto. Protagonisti molto diversi tra loro, che il reporter italiano ha conosciuto da vicino durante 6 mesi passati tra Iraq, Turchia ed Europa raccogliendo 200 ore di registrazione che sono poi diventate 2mila pagine di battitura. “Ridurre alle 600 pagine finali del libro è stato molto faticoso, un lavoro quasi scientifico di incrocio delle fonti e narrazione che mi ha occupato un anno intero quasi completamente rinchiuso nella stanza di lavoro”. Il libro si apre con la storia a tinte forti di un giovane militante politico torturato negli anni prima della guerra dalla polizia segreta dell’attuale presidente siriano Bashar Al-Asad (noto in Italia più come Assad), nel famigerato carcere di massima sicurezza di Saydnaya, aperto dopo che era stato chiuso quello di Tadmur l’altro luogo infernale per migliaia di oppositori politici dagli anni ’80 in poi in cui era al governo il predecessore di Assad, ovvero suo padre.

Seydnaya

“Sono racconti a tratti insostenibili per la crudeltà, ma servono per capire il contesto in cui è nato l’estremismo della Stato islamico e la radicalizzazione di molte persone ‘normali’ che per contrastare l’efferatezza del regime hanno aderito a un’ideologia altrettanto sanguinaria quale quella di Dawla, appunto”. Tramite la drammatica storia del giovane militante chi legge conosce “da dentro” la storia di Al Qaeda e Isis, mentre gli altri tre personaggi sono veri e propri ritratti di tre tipi di carnefici, raccontati ancor più nel dettaglio rispetto al primo. E sono: un siriano che davanti alla corruzione dei chi riteneva essere i potenziali liberatori del suo paese, ovvero i ribelli, passa a guidare addirittura la polizia morale di Isis; un giordano, esperto hacker, che sposa la causa dello Stato islamico ma poi viene creduto una spia e finisce nelle sue famigerate prigioni; un iracheno a caccia di soldi e avventure guerrafondaie che iniziando come infiltrato in Al Qaeda per il regime di Assad finirà poi nel cuore dei servizi segreti dello Sato islamico, con un ruolo principale nell’eliminazione degli oppositori politici interni ma anche nei primi attentati in Europa. “Entri in queste storie, e capisci quando può scendere nell’oscurità l’essere umano”, commenta uno dei detenuti più giovani presenti all’incontro, che ha iniziato a leggere il libro prima dell’arrivo di Del Grande come ospite in carcere. E’ proprio così, ed è per questo che “Dawla” merita poche anticipazioni e un’attenta, profonda lettura.

“Vorremmo riaverti presto fra noi”, è il congedo a Del Grande dei reclusi monzesi. Invito accettato, al termine dell’ultima, impegnativa domanda che gli è stata rivolta: “come vedi il futuro della Siria?”. Risposta netta: “Le potenze internazionali, comunque sia, puntano a lasciare Assad dov’è perché l’alternativa sarebbe lasciare fuori controllo una delle zone più calde del mondo. Stiamo parlando in particolare di Russia e Stati Uniti che sono contrapposte tra loro e che fin da subito sono stati attori di questa guerra che dura da sette anni e verso la quale ogni potenza ha propri interessi, nessuno dei quali umanitari. La Russia per le sue basi militari e le risorse del sottosuolo, gli Usa per arginare le mire dell’Iran, Stato che ha forte influenza in Siria ed è considerato nemico a tutti gli effetti”. In mezzo, “viene lasciata a se stessa la popolazione civile che piange le 500 mila persone morte e che coverà in ogni caso risentimento verso chi governa per i prossimi decenni, i bambini che hanno vissuto tre anni sotto l’occupazione dello Stato islamico a Raqqa e che sono imbevuti di fanatismo”. Un mondo alla rovescia, con cui tutti dovremo fare i conti nel prossimo futuro.

Fonte: Daniele Biella, Vita.it

biografi@museodellamemoriacarceraria.it

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